Le indagini filologiche cui mi dedico con afflato ardente riservano, sia pur di rado, grandi sorprese. La scorsa notte m'imbattei, ad esempio, in uno scritto nuovo che subito riconobbi "familiare". La centunesima novella spuria del Decamerone emersa dalle falde del tempo, eccitatissimo pensai; una storiella orfana delle celebri sorelle dei novellatori in fuga dalla peste di Florentia!
“Ser Roccocò di Santaniello” – questo il titolo della fabula perduta e ritrovata – occhieggiava boccheggiando tra volumi polverosi, implorando lo smarrito amplesso col lettore. La consegno dunque a voi, amici miei, affinché ne godiate come l’amante appassionato della pulzella sua.
“Ser Roccocò, ambizioso signore e aspirante cortigiano, mercante di poltrone in panno pregiato di Fiandra, viveva nella marca del piccolo Ducato di Santaniello. Ovunque andasse, era cosa cognita, mai si separava da un'antica copia della Retorica di Aristotile, di cui vantava conoscer ogni parola; il suo passo preferito era quello sui discorsi che dimostrano la verità apparente di una tesi per lo mezzo di un'acconcia persuasione – era cosa risaputa, del resto, ch’egli non s'affannasse punto nella ricerca della prova.
Quando corse voce che si sarebbe dovuto sostituire il gran Signore, ormai logorato dal potere, con un Principe nuovo, tosto Roccocò decise di candidarsi a rimpiazzarlo, all’uopo ricorrendo al libro sapienziale e ai madrigali sapidi di una lieta brigata di stornellator fedeli.
L’avversario che più temea era senza fallo Don Febo del Ponte, grande erudito, appena rientrato nel Ducato dopo lustri alla lontana corte dei Mori Barbareschi.
Fu così che Roccocò ritenne saggio screditarne la persona diffondendo una improbabile storiella che, in cuor suo sperava, avrebbe indotto le genti del Ducato a diffidar.
Fece affiggere così, sul portale della Chiesa cattedrale, una grande pergamena che narrava della volta in cui del Ponte, rimpatriato, prestò servizio in una Commissione deputata a fornir consigli sulla costruzione di palazzi, di canili e di torrazzi. Del Ponte – così era scritto – avrebbe agito in spregio della conoscenza sua e del codice d’onore della gilda solo per compiacere il gran Signore DucaConte Sagristanio, che in quel consesso l'avea nominato giusta la sua gran fama d’erudito.
Imperciocché, andava blaterando Roccocò, non poteva riporsi gran fiducia in lui dal popolo, chè avendo già brigato col potere non poteva essere acclamato Conte nuovo.
Ma quando agli abitanti del Ducato, che non avean l’anello al naso, fu spiegato che del Ponte non fece altro che usar la scienza sua per giudicar sui palazzi, sui canili e sui torrazzi, e che se non ne avesse fatto uso avrebbe – allora si – tradito se stesso e la sua schiatta d’uomo onesto e retto, il dubbio iniziò tosto a serpeggiar.
Cosicchè, del Ponte concionò, pel sol fatto d’esser stato nominato alla carica dal DucaConte Sagristanio avrei dovuto oppormi a qualsivoglia costruzione, sebbene a regola d’arte disegnata e rispettosa delle leggi del Ducato?
Qual condotta vi par più riprovevole, chiese con occhio di bragia ai popolani accorsi nella Curia, la prima che non commisi affatto o la seconda che in verità fu mia? Avrei dovuto caducar ogni progetto per ambire, un giorno o forse mai, alla poltrona del Signore?
Fu così che gli abitanti del Ducato, che non avean l’anello al naso, decisero di favorir la sua ragione; e quando venne il giorno lo acclamarono a gran voce nuovo Conte, consegnando Roccocò, abborracciato rètore, all'ignominia e all’onta più profonde”.