Secondo il dizionario della lingua italiana Sabatini
Coletti, il significante "populismo" - dall'inglese
"populism", derivato di "populist" - può assumere i
seguenti significati:
1 - Atteggiamento o movimento politico tendente a esaltare
demagogicamente il ruolo e i valori delle classi popolari;
2 - (spregiativo) Atteggiamento demagogico volto ad assecondare le
aspettative del popolo, indipendentemente da ogni valutazione del loro
contenuto, della loro opportunità;
3 - Movimento rivoluzionario russo che tra la fine del XIX e l'inizio del
XX secolo propugnava l'emancipazione delle classi contadine e dei servi della
gleba attraverso la realizzazione di una sorta di socialismo rurale;
4 - In ambito artistico, raffigurazione idealizzata del popolo,
presentato come modello positivo.
Per estensione:
Qualsiasi
movimento politico diretto all'esaltazione demagogica delle qualità e capacità
delle classi popolari.
Il lettore noterà facilmente come, dei quattro significati -
tre, ove si vogliano espungere dall'elenco il quarto, attinente a un ambito
metapolitico e metasociale di chiara matrice simbolista, e il quinto, assorbito
dal secondo -, l'unico cui in Italia e in Europa si riconduca il termine nel
suo utilizzo nel dibattito politico sia quello, spregiativo, di
"atteggiamento demagogico volto ad assecondare acriticamente le
aspettative del popolo".
Nel Belpaese, dopo la breve stagione dell' "Uomo
Qualunque" di Guglielmo Giannini, negli anni '40 del secolo scorso, il suo
uso è tornato recentemente e prepotentemente in auge insieme a quello, privo di
significato sostanziale perchè affetto da intima contraddizione semantica, di
"antipolitica" (l' "antipolitica" esaurisce se stessa nel
"fare politica"), per edificare una nebulosa categoria di pretesa
minorazione intellettuale entro cui confinare un soggetto politico emergente - il
Movimento 5 Stelle -, percepito come "pericoloso" per l'ordine
costituito e irredimibilmente "diverso" da ogni aggregazione affacciatasi
in passato sulla ribalta politica dell'Italia repubblicana.
Secondo la vulgata storiografica prevalente, populisti
furono i tiranni aristocratici greci e sicelioti del VII, VI e V secolo a.C.
che intesero, impadronendosi del potere, dare nuovo impulso al processo di
crescita della sfera pubblica (che sarebbe poi approdato all'esperienza
democratica radicale nell'Atene periclea); populista fu lo scaltro e ambizioso
alcmeonide Alcibiade, l'ultimo dei grandi ateniesi del V secolo a.C., che, al
netto di ogni ambiguità, servì fino all'ultimo la patria cercando di evitare la
disfatta epocale poi inflittale dalla strana coalizione spartano-persiana;
populisti furono senz'altro due personaggi audaci e scomodissimi, invisi al
ceto corporativo senatorio della Res Publica romana del II secolo a.C. -
quei fratelli Gracchi che intesero riformare, ridisegnando la sclerotizzata
politica agraria dei maiores in favore della plebe urbana e rurale,
l'architettura politico-istituzionale della Repubblica - avviandone di fatto il
declino in favore del Principato.
Per niente populista fu, per invincibili ragioni
storiche, il sovrano altomedievale ostaggio dell'aristocrazia fondiaria feudale
e, sotto certi aspetti, il vicerè spagnolo che resse Napoli dai primi anni del
XVI secolo fino al 1707 facendone tragico grumo di privilegi aristocratici e
altoborghesi, paradiso della rendita parassitaria, incubatrice di un lumpenproletariat
"lazzaronesco" (proletariato straccione) che ne avrebbe segnato per
sempre la storia sociale, economica e culturale - incrostandone
oleograficamente la percezione ben al di là di quanto il suo effettivo peso
nella struttura sociale cittadina potesse giustificare.
Populisti furono ancora, invece, gli ultimi miopi e
incapaci Borboni di Napoli che consegnarono all'Italia unita una ex capitale alle soglie di una (incompiuta) rivoluzione industriale e un Mezzogiorno in
tragico ritardo, disperatamente ultimo in Europa - in balia, soprattutto
nelle province, di un'assenza pressochè totale di progresso civile, morale,
materiale.
Sarebbe possibile, sebbene superfluo, continuare con esempi
del recente passato novecentesco.
Dalla digressione storiografica emerge incontrovertibilmente
come il "populismo" non possa essere storicamente ed automaticamente
associato, come categoria socio-antropologico-politica, a temperie di regresso politico, sociale, civile,
economico, culturale, o ad epoche permeate di oscurantismo egualitaristico.
Ed emerge, altrettanto incontrovertibilmente, come, di
contro, un'azione politica non (considerata) "populista" sia stata
spesso prodromica di dinamiche regressive sul piano politico, sociale ed
economico.
Risulta dunque evidente come il significato
corrente del termine "populismo" sia, almeno sul piano storico, del
tutto insufficiente e inadeguato per delinearne i tratti caratterizzanti e delimitarne
univocamente gli effetti sul piano politico, economico e sociale.
Appare
pertanto necessario ricercarne uno nuovo e piu' pregnante.
Esso, a ben vedere, non può che inferirsi partendo da ciò
che sicuramente vi è sotteso, e cioè:
LA
NEGAZIONE DI OGNI DISSENSO.
Il filosofo Diego Fusaro scrive, in un acutissimo saggio
breve edito da Einaudi intitolato "Pensare altrimenti", che
"l'ordine dominante non reprime, oggi, il dissenso. Ma opera affinchè esso
non si costituisca. Fa in modo che il pluralismo del villaggio globale si
risolva in un monologo di massa. Perciò dissentire significa opporsi al
consenso imperante, per dare vita alla possibilità di pensare ed essere
altrimenti".
Goethe, dal canto suo, scrisse che "nessuno è più
schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo".
Viviamo - noi italiani, gli altri europei, gli
"occidentali" in genere - nella gabbia d'acciaio del mercato globale, del
mondialismo finanziario post-industriale degli apolidi signori del capitale e
della politica asservita alle logiche ateo-materialiste della neosocietà nichilista
performante in cui l'individuo non è che atomo-consumatore e in cui sovranità e
stato sociale sono sottoposti a una inesorabile opera di scarnificazione.
Vi conduciamo un'esistenza penosa e spensierata, vittime
inconsapevoli di bieche politiche monetariste imposte da oscuri tecnocrati non
eletti che manovrano sinistramente le leve del potere consegnandoci a un futuro-angoscia al quale
l'essere umano è sacrificato sull'altare di perverse logiche orientate al
profitto ordocapitalistico e alla rendita finanziaria speculativa e
parassitaria.
E', questa, la realtà distopica - fatta di reiterati furti
di sovranità (monetaria, normativa, fiscale, economica); d'inesorabili,
impalpabili, subliminali, continue compressioni delle libertà fondamentali di
pensiero, associazione, parola; di protervi attentati al diritto naturale alla
felicità; di proditori attacchi allo stato sociale - dei moderni uomini-schiavi
ebbri di falsa libertà.
La storia dell'Umanità è piena di dissensi. "La rivoluzione, la ribellione, la defezione, la protesta, la rivolta e l'ammutinamento civile, l'antagonismo e il disaccordo, la disobbedienza, la resistenza, la contestazione, sono tutte forme del "dissenso".
"Dissentì Prometeo dinanzi all'ordine divino che
imponeva la subalternità dei mortali, e poi Socrate, dinanzi alle leggi
ingiuste della polis ateniese. E Spartaco, Catilina con l'efferata
audacia della sua congiura, Lutero con le sue tesi ardite. Ancora, Giordano
Bruno, Cromwell, i movimenti americani contro le guerre del Vietnam e della
Corea, e Marx e Lenin contro le leggi del capitale. Dissentirono gli antifascisti in Italia e Pasolini
contro il nuovo fascismo della civiltà dei consumi, i rivoluzionari in Francia
nel 1789, e i Russi nel 1917. E poi, ancora, Mandela, Che Guevara e,
semplicemente disobbedendo, Ghandi. In tempi più recenti, dissentirono a Genova, nel 2001, i
"no Global", e dissentono ancora, ogni giorno, i comitati di fabbrica
contro i piani selvaggi di ristrutturazione aziendale che impongono
delocalizzazioni, demansionamenti, sradicamenti, anomia, mobilità
insostenibile, tagli inaccettabili ai salari.
"Dissentì Cristo", che nell'evocare la Gerusalemme
Celeste si oppose alle ingiustizie di quella terrena.
Ebbene, lungi dall'essere "populisti" - nel senso "intimo" connesso alla pregnante definizione appena fornita - le donne e gli uomini del Movimento 5 Stelle non fanno altro che rivendicare strenuamente, attraverso la loro partecipazione politica, il proprio sacro, inviolabile, incomprimibile diritto-dovere di dissentire.
E', DUNQUE, IL DISSENSO - contro l'ordine politico
costituito; contro la burocrazia asfissiante che mina la competitività del
Paese; contro le cattive leggi; contro l'ipernormazione e le leggi ad
personam; contro il sistema partitocratico;
contro le dissennate politiche ambientali di governi ciechi; contro una classe politica inetta,
corporativa, ripiegata su se stessa e incapace di intercettare le istanze della
società civile; contro l'Europa dei banchieri, dei tecnocrati e dei nuovi
fascismi finanziari; contro l'abietta logica utilitaristica asservita al
profitto-a-qualsiasi-costo; contro lo smantellamento dello stato sociale;
contro la morte di ogni Umanesimo; contro le sperequazioni in ogni loro
declinazione; contro l'immobilismo reazionario della classe dirigente; contro
gli innumerevoli centri di potere che paralizzano l'attività della pubblica
amministrazione; contro la cattiva scuola; contro l'incertezza del diritto e
delle pene; contro i potentati, le dinastie baronali, il familismo amorale;
contro tutte le mafie - LA MATRICE COSTITUTIVA
DEL MOVIMENTO 5 STELLE.
Il dissenso che le pietrificate, sclerotizzate
compagini partitiche italiane intendono anestetizzare al loro interno - creando le condizioni per un
artificioso, asettico, pletorico consenso intorno a logori stereotipi di falsi leader
magniloquenti, ignoranti, pregni d'hidalghesca albagia - e reprimere
all'esterno affinche' nulla possa turbare l'ordine costituito di cui esse
stesse sono garanti.
Dissenso che è antitesi di ogni populismo.
Dissenso da difendere, custodire, garantire nella
possibilità del suo libero dispiegarsi.
Dissenso potenzialmente, democraticamente e virtuosamente
sovversivo, da coltivare attraverso la costante mobilitazione delle coscienze, da alimentare mediante la costruzione possibile di un
consenso libero, democratico, ab solutus - sciolto, cioe', da ogni
scellerato vincolo veteropartitocratico di coalizione.
Dissenso da tramutare in consenso intorno all'idea bella, prometeica, di una nuova Italia, di una nuova società, di una nuova politica che rechi in sé gli anticorpi contro l'unico, vero populismo: Quello del potere vanaglorioso e pletorico che, dissimulando la propria essenza autoritaria, non faccia altro che tentare di perpetuare se stesso.
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